Giacomo Barzellotti a Mario Pratesi

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Caro Mario,

                           Roma, Via del Tritone 28, 2° p.
                                   Venerdì 26 Ottobre '83.
                                                       
     Ricevei la tua lettera e ti ringrazio
di avermi scritto tu primo, colla solita sollecitudine
della tua vera amicizia. Io sono stato parecchi giorni
dopo il mio arrivo qua molto occupato per le due
Commissioni dei concorsi alle cattedre degl'Istituti fem-
minili di Firenze e di Roma per cui ero venuto.
Oltre al far parte delle due Commissioni, dovetti
scrivere tutti i processi verbali e fare una delle
Relazioni. Ora tutto è finito da alcuni giorni e
sono tornato a stare nell'antica mia pensione che occu-
pavo tre anni fa e nella medesima camera ariosa e
bellissima a mezzogiorno. Vi rimarrò certo tutto l'anno
poiché per una deliberazione, fermissima e meditata
oramai da molto tempo, ho deciso di lasciar Pavia. Per
quest'anno non ho potuto avere nessuna nuova desti-
nazione qua all'Università, ma è molto probabi-
le che questa venga o prima o poi, e, ad ogni caso,
visto e considerato tutto a me mette sempre più conto
il trovarmi qua in questo gran centro ove ho
tutti i miei amici, ove mi vengono da ogni parte


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impulsi e ispirazioni a svolgere nel modo che meglio
mi conviene e ch'è più conforme ai miei studii
le attitudini della mia mente, qua a due
passi dal Montamiata e dalla Toscana, che non il vivere
a Pavia, isolato, fuori dal centro letterario della cultura
più viva d'Italia. A Pavia (questo era indubitabile) non
sarei potuto rimanere che un altro anno, o al
più due altri anni. Perché debbo perdere un altro
anno o due altri anni? Io chiamo perduto
un anno di vita, in cui sento che non posso
guadagnare nulla intellettualmente, e vivere d'una
vita intellettuale intensa. D'altronde nessuno mi
costringe a strapazzarmi. Ma qua, a questa bella
luce, in questo clima temperato, tra le memorie
e i monumenti di cui ho bisogno, perché ci
sono nato in mezzo e ci sono sempre vissuto, sento
di poter lavorare più efficacemente e con minore
dispendio di forze, perché con maggior serenità e
alacrità. Mi trovo già contentissimo di questa mia
decisione, e se una cosa mi dispiace, è di non
esser più vicino a te. Ma indipendentemente


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dalla tua buona compagnia, caro amico, Milano anche
colle belle e simpatiche conoscenze che ci avevo
e che solo mi poteva dare, piena di moto e di vita come pure
è, non m'ispirava punto, mi dava come il
sentimento di un ozio elegante che mi circondasse
e nel quale io m'annojavo, perché la mia
mente non ne riceveva nessun impulso vigoroso e
utile al pensiero scientifico e alle intuizioni del-
l'arte. È vero, come dicevi, che, non avendo molto
da fare, si può stare molto bene a Milano,
ma era appunto questo sentimento che avevo che
là non avrei avuto da fare nulla, nulla da
procacciare e da cercare con vigore, nulla che mi fa-
cesse prender parte alla nuova vita del nostro paese, alme-
no secondo le forze mie, era appunto cotesto
sentimento che io provavo a Milano e che mi
riusciva spesso tedioso e molesto. Io, dunque, rimarrò
a Roma: hic manebimus optime.
    Eccoti detto quello che io faccio. Intanto conti-
nuo a lavorare. Lo Zanichelli mi manda molto adagio la
stampa. Ho scritto un articolo nell'ultimo Fanfulla


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della Domenica e qualche altra cosa. E poi
credo che farò nell'anno qualche conferenza
o un corso libero.
    Se vedi la Signora Viola, dille di questa
mia risoluzione e quanto m'è dispiaciuto di
lasciare l'amabile compagnia dei miei amici
Milanesi: dille che ho molto rimpianta la
morte dell'ottimo e rispettabilissimo Signor Tinca.
Se la bella e graziosa Contessa Arnaboldi e la
sua simpatica sorella sono tornate, salutale.
Scriverò loro e non son potuto andare in
Brianza, perché occupato qua. Tu abbiti ri-
guardo, e credimi tuo aff.mo amico

                                      Giacomo

P.S. Se ci fosse modo di sapere l'indirizzo
      del Folli[?], vorrei mandargli l'articolo
      del Fanfulla. Ma non c'è furia.

 
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