Mario Pratesi al padre Igino Pratesi

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               Milano, 29 7bre '90.

Caro Babbo,

    Ho ricevuto oggi la sua cara
lettera che Ella ha dettata a Tito. Non le
nascondo che essa mi ha addolorato per ciò
che mi dice delle sue forze indebolite.
Se non che io son certo che Ella s'esagera
la sua condizione pensandovi troppo, e non
cercando di aiutarsi con un po' più di co-
raggio e di fiducia nella robustezza e sanità
del suo corpo: sanità che Ella deve alla
vita sobria e regolare, e che le
può benissimo permettere di vivere molti
anni ancora al rispetto e all'amore de'
suoi figliuoli. Dunque non si perda
d'animo, e si ricordi che molti dei nostri
mali son generati o aggravati dalle
apprensioni morali. Rifletta ancora


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che non è vero che questo indebolimento in
lei debba essere graduale. Le forze scemano
e ritornano secondo certe disposizioni dell'or-
ganismo e del mondo che ci circonda. Cesare
Cantù
che ha ottantacinque anni e che due
anni fa sentivasi assai indebolito, ora è
tornato vispo quasi come un giovinotto:
mangia bene, dorme contento; tiene conver-
sazione ogni sera fino alle undici, il giorno
legge, scrive, lavora, riceve visite. Ho sulle
Alpi incontrato vecchi di novant'anni che
non si nutrivano se non di polenta e formag-
gio, e dormivano in una capanna mal riparata;
oppure lavoravano attorno le bestie, rubizzi
ancora e contenti. Rifletta che nelle stagioni
intermedie, come l'autunno e la primavera,
il corpo soggiace anche nei giovani a
passeggiare fiacchezze. Dunque non si


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butti tanto giù, per l'amor di Dio! A
Lei ho sempre creduto che noccia codesta
vita troppo ristretta tra due o tre persone,
troppo isolata. Se Ella potesse convivere
con alcuno de' suoi figliuoli, con Tito, per
esempio, o con Plinio, Ella avrebbe più
conforti d'affetto, non perderebbe nulla
della sua libertà, avrebbe una compagnia
certo migliore, e più distrazione da' suoi
pensieri neri. Badi che io non intendo
suggerirle nulla, ma solo esporle una
mia opinione.
    Di ciò che mi dice di
quelle che chiama le mie glorie letterarie,
povero a me! Scrivo perchè è il bisogno
che mi sforza, perchè lo stipendio non
basta alle spese e nè bisogni. Così


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mi duole che la mancanza di mezzi, e la
necessità de' miei lavori m'abbia impedito
queste vacanze di venire a Siena a abbrac-
ciarla. Ma spero che potrò venire questo
Natale. Frattanto mi scriva ancora, o
mi faccia scrivere da Corinna, la quale
credo che sia tornata, dandomi nuove
migliori di sè.
    Mi perdoni la fretta; mi benedica
e mi creda abbracciandola caramente
                     Suo aff. obb. figlio

                        Mario

 
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