Manfredo Vanni a Mario Pratesi

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Mario, amico carissimo,
                            Milano il 6 dec
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    Ebbi il saluto gratissimo della tua
novella "Un povero militare" che, dopo
aver letta sull'Antologia colla fretta con-
sueta allo sfogliare delle Riviste, ho po-
tuto rileggermi con più agio sulla co-
pia stemmata d'una tua dedica troppo
lusinghiera per me.
    Non ti ringraziai subito del dono,
nel desiderio di un po' d'agio, a trat-
tenermi non fuggevolmente con te. So-
no tante le cose che vorrei dirti, così
vive le suggestioni dell'arte tua no-
bile elevata italianissima, così pie-
na e perfetta la consonanza fra


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l'uomo in te e lo scrittore, che vorrei
poter risalire la costa amena della tua
strada fiorentina, per trovarti ancora
nella tua bella stanza ariosa, e conti-
nuare con te il discorso interrotto il
passato settembre.
Ne avrei bisogno della tua parola sem-
pre calda e giovanile come i tuoi scritti
per riposarmi da questa mia avvilen-
te vita quotidiana oscura tetra
di parola. Se insegnassi a Firenze,
me le pigliarei [sic] voluttuosamente que-
ste vacanze dello spirito, e tu non
disdegneresti la compagnia d'un
fratello minore d'età e d'inge-
gno, ma come te amante d'ogni
cosa bella e gentile e dispregia-
tore di tanto corrotta ingrata umanità.


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    Perdona questo sfogo, e persua-
diti che proprio ho voglia di stare ad
agio con te.
    Ho riletto, dunque, la tua no-
vella, e come avviene a me delle
cose tue ne ho scoperte e intese di
più le forti attrattive. Ho notato (se
non erro) che per la prima volta ap-
parisce nel tuo dipinto novellare la
plaga del Casentino. Così l'hai percor-
sa tutta la nostra Toscana, come del
resto hai percorsa e dipinta tanta
Italia, sempre di paese in paese.
Certo è che tanta bella varietà di
luoghi deve essere una delle ragio-
ni per cui non ti ripeti mai, cosa
assai difficile quando è così continua
la propensione a ritrarre l'anima


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della plebe in quel che spesso ha di meno
corrotto nell'appartata vita della campa-
gna, dove il rude ingenuo primitivo tempo
della vita è men difficile cogliere. Il tuo
ultimo non apparisce più abbellito, dirò cosi,
di prospettiva di quello che non sia Renato
e Belisario e Dolcetta e gli altri fratelli
della tua bella famiglia. Si muore e gor-
goglia e ondeggia attorno a lui tutto il tempo
lungo della vita nostra nazionale di ieri, il
che spiega anche qualche diversivo nel rac-
conto che forse allunga di troppo qua e là
la novella e la scompagina. Ma non ne
diminuisce l'effetto dell'aver reso intero nello
spirito e nelle cose un [illeggibile], come quello
testè passato, della nostra vita italiana. E
questo mentre ancora scroscia il torrente
melmoso di trista letteratura in verso e in


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prosa che sta a pari cogli altri flagelli
della tristissima atroce guerra mondiale. Tut-
ta una letteratura senza preparazione gonfiata
di enfasi e saporita di volgarità. Ed è que-
sto il peggio che trova applausi lodi e letto-
ri, ed è quella che il pubblico legge di più
e che gli editori più chiedono e commetto-
no a un tanto il braccio.
    Ora per la ragione dei contrari è giu-
sto che una sentita severa e schiva arte
come la tua, caro Mario, che domanda nei
lettori orecchio esercitato al bello e anima
esperta di lavoro interiore si debba confes-
sore di pochi e rari estimatori, tanto più
sinceri quanto ti riconoscono uomo tanto
diverso dalla presente età e quindi scrittore
d'indole solitaria e nobilmente sdegnosa.
    Ma chi ti legge attentamente e ha seguito e


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segue l'opera tua schietta e nutrita sem-
pre a un poco intimo di meditata belle-
za, si compiace del conforto che non
può mancare a chi l'arte prosegue[?] di
un amore come il tuo, e indovina la
lieta quotidana consolazione del fervore
quasi religioso col quale senti fortemente
prima in te e poi esprimi tante belle co-
se. Nè quindi è meraviglia che tu le sap-
pia dir cosi bene!...
    Tutte queste cose ho buttate già per
avere il piacere di trattenermi con
te, a costo di dire anche delle scioc-
chezze. Tu mi perdonerai per l'affetto, e
indovinando più che non dica.
Io vivo nel mio consueto sublime
di lavoro e pensieri quotidani. Il
mio caro ferito1 va (se non s'illude


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l'occhio paterno) ripigliando a poco a po-
co le linee smarrite del suo volto di
due anni fa. Rimane ancora qual-
che problema chirurgico da sciogliere
e attendiamo che il robustimento del
corpo sia pari a quello dell'animo in
ottime condizioni di rinascita rinno-
vellata.
    Intanto attendo che mi ritorni a casa
l'altro figliolo, per fortuna rimasto
illeso nei pericoli del fronte. Questo
mio Giovannino, che lasciò per la
guerra il suo corso del politecnico, ri-
tornerà ora, dopo quattro anni di vita
militare, un officiale del genio abi-
tuato ad altre idee di vita che non siano
quelle di studentello. Ecco per me un
altro frutto triste della guerra!


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Ma vedi la mia pretenzione che tu
legga tutte queste mie chiacchiere
interminabili! Faccio punto, salu-
tandoti caramente da parte di tutti i
miei, con ogni buon augurio di con-
tentezza. E mi dico ancora una volta
                       tuo affezionatissimo

                    Manfredo Vanni



1. Probabilmente il figlio Carlo.

 
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